LA STORIA
Le Marche hanno la peculiarità di avere mare, collina e montagna, molto ravvicinate fra loro, tanto da avere la possibilità di spostarsi dalla spiaggia alla pendici della montagna in un’oretta scarsa di macchina.

Il paesaggio marchigiano è il risultato di un intreccio della cultura dei saperi contadini, di antiche ed ininterrotte frequentazioni di popolazioni che hanno saputo sfruttare le vocazioni naturali dei suoli.
Nelle colline di questi territori, per alcuni millenni si è concertata, in tempi e modalità diverse, l’agricoltura, che fino agli anni ’50 è risultata l’unica fonte di sostentamento di intere generazioni.

Marche terra di mezzadri.
La mezzadria, sino al 1950, soppianta nelle Marche ogni altra forma di rapporto di lavoro nelle campagne.
Nel 1939 si contavano 100.000 aziende agricole mezzadrili (il 60% della popolazione marchigiana).
La conduzione dei terreni agricoli è stata segnata dalla mezzadria che è un contratto che lega il contadino (mezzadro) al proprietario del terreno.
La mezzadria presupone:
1) Un podere inteso come unità colturale compatta
2) Sul podere insiste una casa colonica che deve essere mantenuta decorosamente da parte del contadino che deve predisporre il locale per il ricovero degli animali, pre gli attrezzi agricoli e per le scorte; la casa di campagna era priva di acqua corrente, che si prelevava dai pozzi e veniva messa nelle brocche di coccio e di rame.
3) La famiglia mezzadrile deve stabilmente vivere e lavorare su quel podere; per questo motivo nelle Marche, in Umbria e in Toscana sia ha un territorio con la percentuale più alta di insediamento di case sparse nelle campagne.
Il contratto mezzadrile prevede che il contadino debba lavorare la terra e dare metà del ricavato al proprietario. Spesso non è direttamente il proprietario terriero che controlla il ricavato, ma il fattore, uomo di fiducia del padrone.

Le donne
Le donne di campagna lavorano nei campi come gli uomini, badano agli animali da cortile, preparano i pasti, tessono, filano, rattoppano, fanno maglia, accudiscono i vecchi e gli invalidi e sfornano un figlio all’anno, allattandolo per un intero anno. Mangiano la metà degli uomini, per loro non c’è posto in tavola, se si esclude la vergara.
L’inchiesta Jacini (1874) documentava testualmente: “… è estremamente difficile trovare una contadina di 25/30 anni che mantenga la freschezza delle carni e la rotondità delle forme, per scarsa alimentazione, lavoro improbo e continue gravidanze”.

I lavori stagionali
I più impegnativi lavori i effettuavano per la semina, la raccolta del grano, per la scartocciata del granoturco e per la vendemmia.

L’aratura
L’aratura è stata effettuata per un lungo periodo impiegando la trazione animale con l’applicazione del collare di spalla per il cavallo e del giogo frontale per i buoi, usando gli aratri di legno. Nel secondo dopoguerra subentrerà la trazione meccanica e i campi e i modi dell’aratura verranno rivoluzionati.
Finita l’aratura il terreno veniva passato con un attrezzo per rompere le zolle più grosse.
A novembre si seminava, in aprile/maggio si procedeva alla faticosa ripulitura delle erbacce. A fine giugno, finalmente, se il tempo era stato clemente, si procedeva alla mietitura.

La mietitura
Quando il grano era maturo, i falciatori lo tagliavano e le donne, a seguire, riunivano gli steli del grano (lo ‘rdunà) che legati, formavano un covone. I covoni dal campo venivano caricati con la traja (una specie di grande slitta, trainata dai buoi, che si adoperava quando il terreno non consentiva l’uso del carro con le ruote) e venivano portati nell’aia.
Finita la prima parte del lavoro, le donne e i bambini, spesso a piedi nudi, ripassavano il terreno per la raccolta delle spighe rimaste e le ammazzettavano in mucchietti chiamati mannòppele.
la mietitura iniziava all’alba e finiva col buio. La fatica era tanta, e anche se a volte la famiglia patriarcale era composta anche da più nuclei famigliari, le forze non errano sufficienti per falciare il grano esteso su tutta la collina, così si ricorreva all’opere, ossia alla partecipazione di altri nuclei famigliari che a loro volta ricevevano lo scambio del favore (lu scuntà)

La trebbiatura
Entrava in scena il vecchio trattore con la trebbiatrice e si posizionava lu scalò, si allungava il cintone per la terra in modo da calcolare la distanza dalla trebbia.
Arrivato il fattore, si dava inizio ai lavori, quindi una sirena chiamava a raccolta tutto il vicinato e si posizionava il palo attorno al quale si alzerà il mucchio di paglia (lu pajià).
I sacchi pesati sotto l’occhio vigile del fattore venivano divisi fra i contadini e il padrone del podere e trasportati dalle persone più robuste, altri erano addetti a separare la pula che veniva tirata da sotto la trebbia con un rastrello.
La paglia durante l’anno veniva tagliata con la falce fienaia e mischiata col fieno come cibo per gli animali, una parte veniva portata nella stalla per fare “il letto” agli animali.
In tutto questo gran da fare, c’erano dei piccoli momenti in cui ci si dissetava con una bevanda di acqua e limone o con un vinello allungato, versati nella brocca portata dalle donne o dai ragazzi per calmare momentaneamente la gola riarsa dal polverone e dal caldo afoso.
Quando tutto il grano era stato trebbiato, il pensiero di tutti correva all’immininte e abbondante cena finale, da cui dipendeva l’onore e la reputazione della famiglia ospitante.
A volte, poco dopo la cena, partiva l’organetto, si cantavano le strofette e “i dispetti” pieni di doppi sensi e di sfottò, e se si aveva ancora la forza, si ballava, Per i giovani questa era una delle poche occasioni per avvicinarsi alle ragazze.

testo di Walter Ferri.